
Il mare è un tipo di vacanza faticosa. Il sole, la sabbia, e poi tutta la strada che ogni volta c’è da fare: la strada per arrivare in spiaggia, la strada per trovare il punto perfetto per l’ombrellone, la strada per spostarsi, perché il punto non andava poi coì bene, e la strada infinita verso l’agognata acqua.
Il mare è una vacanza faticosa. Devi giocare a pallavolo, sennò sembrerai poco atletico. Devi giocare a carte, sennò sembrerai troppo solitario. E devi leggere, sennò sembrerai poco intelligente.
Devi fare le parole crociate, ma devi farle bene. Il 50% delle risposte devono essere trovate in autonomia, gridandolo al mondo, il 20% devono essere trovate insieme a chi ti sta intorno, sempre per la questione del solitario di prima, e mai più del 30% cercate segretamente su Google.
Il mare è una vacanza faticosa. Devi ridere perché sei in vacanza, ma non troppo, perché deve sembrare che tu abbia lavorato tanto in settimana. Devi addormentarti sotto il sole, ma non troppo, sennò finirai per scottarti e maledirti alle 4 di notte, mentre i più ligi staranno dormendo tranquilli.
Che poi le regole sull’abbronzatura sono precisissime. Devi abbronzarti, sennò non si capirà che sei stato al mare. Ma devi metterti la crema, incentivando sempre chi è con te a metterla (incluse nella predica devono essere sempre snocciolate le motivazioni per cui, la tua crema, è migliore delle altre). Non devi stare troppo sotto al sole, non deve sembrare tu voglia a tutti i costi abbronzarti, devi solo essere abbronzato a fine vacanza, senza dare nessun cenno dello sforzo.
Il mare è una vacanza faticosa. Nessuno si diverte davvero in spiaggia. Le spiagge sono un logo affollato di gente scottata per non aver seguito bene le regole, gente che gioca male a pallavolo, gente che conosce solo un gioco con le carte e gente che legge libri discutibili, o li porta in spiaggia solo per appoggiarli sull’asciugamano, assicurandosi così che il vento non lo porti via.
Le spiagge sono piene di gente che ride in modo rumoroso e ostentato, che si lamenta del lavoro o della politica, o di entrambi. E di gente che, pur non volendosi abbronzare, è costretta al sole, e si contorce sudata come una lucertola con il sangue ormai caldissimo.
A me non piace andare al mare, eppure c’è una cosa del mare di inizio estate che mi ha sempre affascinata.
Mentre noi abitanti della città ci affanniamo per poter dare, al nostro rientro, la prova della vacanza passata, chi abita le zone di mare è abbronzato da mesi e guarda inerme il nostro pietoso spettacolo.
Loro non si preoccupano di sembrare felici, di giocare a carte (passatempo in cui probabilmente hanno speso tutto l’inverno) e non hanno intenzione di partecipare a nessun gioco di società, abituati come sono alla solitudine.
Per gli abitanti delle città di mare, quando arriviamo noi cittadini, l’estate, per tutti appena iniziata, è già finita. Si tramuta in caos e gente impacciata che, senza ritengo, grida di stupore al primo segno di abbronzatura o alla prima parola che si incastra tra i quadratini, rovinando di colpo la pace custodita da quei luoghi per mesi.
Credo che l’unico motivo per cui ancora noi cittadini frequentiamo il mare sia per concederci l’illusione che l’estate si avvicini alla città. Si spera che, in qualche modo, vivendo il mare intensamente lui si senta costretto a restarci addosso e a tornare a casa insieme a noi. Che seguendo la carovana di macchine l’estate riesca a trovare la strada per arrivare, fioca, ai nostri posti di lavoro, alle nostre strade incandescenti e alle nostre case stracolme d’aria condizionata.
Perché si sa, nelle città di mare, l’estate arriva prima.
Sempre pallidamente vostra,
Caterina