
Quante volte ci guardiamo allo specchio e non ci riconosciamo. Ci osserviamo con la netta sensazione che quelli che vediamo riflessi, quelli che ci hanno insegnato essere noi, poi in fondo non lo siano veramente.
Io non riconosco sempre la mia immagine. A volte mi piacerebbe parlare con quella dall’altra parte e chiederle chi è, perché occupa il mio posto. E so che Lei, spavalda com’è nel mostrarsi, mi risponderebbe che mi sono rincretinita. Che non c’è nessun “Lei” e nessun “Noi”, che difatti coincidiamo. Mi direbbe che non ha scelto Lei di stare lì, da quella parte, e che, se potesse scegliere, starebbe sicuramente dalla mia. Mi ricorderebbe che dipende dalla mia vanità e che io invece non ho bisogno di Lei per esistere. Io posso spostarmi, vedere, toccare, vivere anche senza avere davanti uno specchio. Io esisto anche senza vedermi, io sono anche senza la mia immagine.
Lei, invece, chiusa nella parete, senza di me non c’è. Il massimo che può sperare è che io decida di passarle davanti, e che mi soffermi un po’con Lei.
L’unica cosa che vede sono io, il mio volto che si guarda in Lei, che si corregge, si scruta, si modifica, per far sì che Lei sia migliore, più bella. Che insulto.
Mentre io posso non curarmi di Lei, Lei non può che curarsi di me. E io ingrata la giudico, la ignoro, la modifico, le chiedo di fare di più, di fare meno, di fare meglio o di non esistere affatto.
Che colpe ha Lei? Quale vita passata dissoluta ha condotto per essere oggi la mia schiava e la mia preda? Quanta poca pietà e compassione ho avuto negli anni, per quella figura incastrata e sola.
A mia discolpa, a me hanno detto che quella ero io. Che quella che vedo li nello specchio coincide esattamente con me. E come tale ho creduto di poterla sottoporre a tutto. Ci credo che è triste, sarei triste anche io. Se la persona da cui dipendo così intimamente mi dicesse quello che io dico a Lei. Se mi trattasse con sufficienza e mi giudicasse sempre un po’ fuori posto, allora sarei triste anche io.
Non ci sarebbe trucco, richiesta o correzione che avrebbe la forza di rendermi felice, più bella, migliore. Nessuna parola potrebbe tirarmi su. Nessun complimento altrui potrebbe aiutarmi.
Se un giorno scoprissimo che da bambini ci hanno mentito. Che quelli che vediamo riflessi in realtà non siamo noi, quante scuse gli dovremmo. Per tutte quelle volte che gli abbiamo guardati troppo a lungo, giudicati, per tutte le volte che non gli abbiamo parlato o per le parole che abbiamo scelto nel farlo. Quante scuse le dovrei se Lei non fosse me. Quanto senso di colpa per averla abbattuta, per averla ferita, per averla voluta diversa.
Ma se Lei fosse me, come sostiene. Se Lei davvero fossi io e niente di noi due non coincidesse, allora questo genererebbe un po’ di imbarazzo. Mi sentirei libera di farle ciò che voglio, ma dopo averla immaginata altro da me, non potrei farlo con la stessa leggerezza. Dopo aver pensato a Lei come diversa e averla immaginata ferita, sola e totalmente dipendente da me, come potrei trattarla allo stesso modo? Adesso, oggi, guardandola non riesco a non pensare a quante scuse le dovrei, se Lei fosse davvero me.
Sempre riflessivamente vostra,
Caterina